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Un soldato con il dito posato sul grilletto osserva da un mirino una donna e un bambino uscire dalla porta di una casa di una qualsiasi cittadina irachena. La donna tiene nascosta sotto il velo una granata, la tira fuori la passa al bambino e lo spinge a scagliarsi contro soldati americani. Inizia così American Sniper, l'ultimo film del regista americano Clint Eastwood. Pochi secondi ma di grande impatto visivo che aprono già a una grande domanda: si può andare in guerra, diventare in assoluto il più celebre cecchino della storia americana senza farsi scalfire minimante dagli orrori della guerra stessa e dal rimorso per le azioni compiute?
Qualche secondo di esitazione prima che un flashback ci riporti indietro con il tempo per raccontarci la storia di Chris Kyle bambino, figlio, torero e marito che si trasforma nel più efferato cecchino di tutti i tempi. Un talento naturale la cui personalità e carattere vengono plasmati fin da bambino da un padre dai chiari principi morali. Il mondo, spiega papà Kyle, si divide in pecore, lupi e cani da pastore. A questi ultimi spetta il difficile compito di proteggere le pecore dai soprusi, spesso immotivati, dei lupi cattivi.
NÉ PECORE NÉ LUPI
L'insegnamento è chiaro e semplice così com'è chiaro che il Signor Kyle, nella sua casa, non vuole allevare né pecore né lupi. La visione paterna accompagnerà Chris nel corso della sua intera vita e il giovane, in seguito agli attacchi terroristici alle ambasciate statunitensi di Kenya e Tanzania, si arruola nei Navy Seals. Il duro addestramento non scalfisce minimamente l'uomo mosso dal senso del dovere e dalla convinzione di assolvere a un ruolo più grande. E nemmeno l'inaspettato incontro con una donna che diventerà moglie e madre dei suoi due bambini lo dissuade dal partire.
Rigore, acume, attenzione al dettaglio sono caratteristiche che non passano inosservate e Kyle viene spedito in Iraq per vegliare dall'alto sulle vite di quei soldati che si muovono tra le polverose e desolate strade delle città di Ramadi, Fallujah e Sadr City alla ricerca del pericoloso Al Zarqawi, del suo luogotenente, un uomo conosciuto come Macellaio e noto a tutti per la crudele mania di torturare i cittadini con un trapano, e dell'altrettanto talentuoso cecchino Mustafa.
Una delle principali critiche mosse a Clint Eastwood per American Sniper è quella di aver girato un film guerrafondaio, in cui il netto contrasto tra il Bene e il Male risulta un po' troppo scontato e schematico. Quasi che l'intenzione di Eastwood fosse solo quella di presentare al mondo un film propagandistico per legittimare le scelte degli americani, condannare chiaramente quelle del nemico e far simpatizzare il pubblico con lo sniper più noto d'America, attraverso la semplicistica contrapposizione di giusto e sbagliato.
In realtà, dietro American Sniper c'è molto più che il riduttivo resoconto di una guerra le cui ferite sono anche fresche e vive. American Sniper è la storia di un uomo divenuto presto eroe, un soldato ammirato in patria e temuto dai nemici tanto da guadagnarsi sia l'appellativo di Leggenda, attribuitogli dagli altri soldati, che quello di "Diavolo di Ramadi", affibbiatoli dai terroristi. Appostato sempre su un tetto diverso, Kyle è al tempo stesso angelo custode e sterminatore efferato e tutte le volte è messo di fronte alla difficile decisione del premere o meno il grilletto. Una decisione che è chiaramente condizionata dal contesto in cui si trova ad agire e dal ruolo incarnato.
UNA REALTÀ VIOLENTA
Eastwood, con una regia pulita e una narrazione fluida, non si nasconde dietro gli specchi e mostra allo spettatore la guerra per quella che è, una realtà violenta, dove il male è fine a se stesso tanto da non crearsi scrupolo neanche quando deve farsi scudo di donne e bambini per far esplodere una granata. Dall'altro lato, però, il regista non esita né teme nel presentare allo spettatore i dubbi e le perplessità di un uomo sulla cui testa pende una taglia da milioni di dollari e che "di fronte al male come non lo aveva mai visto" deve continuamente decidere della vita degli altri. Sappiamo bene che, alla fine, quel grilletto sarà premuto perché Kyle lotta contro il male anche quando questo assume i contorni delle vittime innocenti. Ma sappiamo anche che la decisione di colpire non è mai semplice né scevra da implicazioni e tormenti morali.
Il disagio di Kyle emerge soprattutto a casa, nei periodi di stacco tra un turno e l'altro. Le poche commoventi scene domestiche servono a chiarire quanto l'uomo non riesca a staccarsi neanche mentalmente dall'orrore della guerra e dal suo ruolo di soldato. Perché la sua vita Chris la sente piena solo quando è in guerra, nel confronto con un nemico terribile, solo quando è in prima linea per assolvere a un dovere di cui non riconosce neanche i limiti. Kyle crede in quello che fa e sa bene che la sua decisione di uccidere è controbilanciata - non per questo giustificata - dalla necessità di coprire i suoi compagni. Eppure il peso morale delle sue azioni emerge con chiarezza soprattutto nel finale. Sia nel confronto con un figlio a cui spiega quanto sia difficile "fermare un cuore che batte" sia nel confronto con uno psichiatra a cui confessa di essere pronto ad assumersi la responsabilità di fronte a Dio per le oltre 160 persone uccise.
Eastwood, con quella delicatezza e quella sensibilità che non fatica a padroneggiare, racconta molto più che la guerra. Ancora una volta dimostra di sapere fare grande cinema attraverso la storia di un uomo grande, di un eroe sorretto dal sentimento, dal desiderio di contribuire a creare un mondo perfetto e da una fede incrollabile. Basta la semplice immagine della Bibbia a ricordarci continuamente il significato ultimo di quella vita che non si piega mai di fronte al nemico ed è alla continua ricerca di un senso più grande persino in seguito al definitivo rientro in patria. Quella stessa patria che continua a servire con convinzione e che per un beffardo scherzo del destino lo condanna a una fine tragica e assurda.
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