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Finalmente è stato tradotto in italiano un film canadese di due anni fa: Raccolto amaro. Il titolo, tanto per cambiare, non rende giustizia all'argomento. Infatti, il titolo originale è Holodomor, che è il nome che gli ucraini hanno dato alla loro più grande tragedia nazionale; un po' come gli armeni che chiamano Metz Yeghern («il grande male») il genocidio del loro popolo operato dai turchi prima e durante la Grande Guerra. Il film (sottotitolo Bigger Harvest) ambienta la sua storia al tempo della grande carestia, artificiale, che il regime sovietico provocò in Ucraina e che cagionò la morte per fame di sette o dieci milioni di persone (naturalmente, la cifra esatta forse non si saprà mai), una tragedia di proporzioni immani.
Sono documentati anche casi di cannibalismo. Nel film si dice chiaramente che tra il 1932 e il 1933 Stalin mise in atto la soluzione finale che già Lenin aveva escogitato per risolvere definitivamente la questione dei kulaki, i contadini-proprietari. La maggior parte di questi era ucraina, perché l'Ucraina era il «granaio d'Europa». La collettivizzazione coatta portò ovviamente, al crollo della produzione, così come in altri settori. E i comunisti conoscevano una sola soluzione ai problemi economici: la fucilazione dei «nemici del popolo». Solo che né decimazioni né deportazioni in Siberia bastavano. Allora, il grano ucraino requisito venne venduto all'estero a prezzo stracciato per battere la concorrenza e procurarsi valuta pregiata. E l'Ucraina divenne una gigantesca prigione da cui non si poteva uscire e in cui si poteva solo aspettare la morte. [...]
Il film ben descrive il crescendo della tragedia partendo dalle colorate e religiosissime usanze di un popolo di antica cultura (è proprio dal principato di Kiev, capitale ucraina, che comincia la cristianizzazione della Russia). Poi arriva il commissario del popolo e l'unica preoccupazione dei protagonisti è quella di nascondere l'icona di San Yuri (Giorgio), protettrice della famiglia. Il giovane Yuri, pittore, è andato a cercare fortuna a Kiev, ma il direttore dell'accademia di belle arti boccia le sue opere citando il Manifesto dei Surrealisti e Picasso (tutti comunisti).
E pronuncia la frase che perfettamente descrive l'ideologia del regime, anzi tutte le ideologie di derivazione giacobina: «La realtà è il nemico». Yuri si ingegna di accontentarlo ma, qualche tempo dopo, scopre che quello è finito nel gulag. Contrordine, compagni: bisogna dipingere trattori, operai, soldati. Insomma, manifesti di propaganda politica, l'arte sovietica è tutta qui e non deve essere altro. Ma non vogliamo qui narrare tutte le peripezie di Yuri, che assaggerà le carceri e le torture del paradiso dei lavoratori e poi scappa per tornare a casa dalla moglie. Quando torna e trova il deserto (la moglie insidiata dal commissario del popolo, che ha ucciso i suoi genitori, le fosse comuni e le cataste di cadaveri che nessuno ha la forza di seppellire) si unisce alla resistenza. Ma anche questa, senza armi e munita della sola forza della disperazione, non ha futuro.
L'unica a quel punto è la fuga verso la Polonia e, da lì, verso l'Occidente. Il film non dice se la fuga è riuscita, rimane il finale aperto. Saranno i titoli di coda a dirci quanti ucraini riuscirono a espatriare in quegli anni: quasi nessuno. La produzione, canadese, ha fatto ricorso ad attori hollywoodiani, tra cui i più noti sono Barry Pepper e Terence Stamp, rispettivamente il padre e il nonno di Yuri, fieri guerrieri dalla caratteristica acconciatura tradizionale (cranio interamente rasato tranne un lunghissimo ciuffo). Il film è avvincente, e merita la visione. Anche perché, per quanto ne so, è l'unico a trattare il tema.
Fonte: La nuova Bussola Quotidiana, 10/06/2019
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