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Quando venne alla luce, il 28 dicembre di sessant'anni fa, don Camillo non immaginava certo che la sua sarebbe stata la generazione del sessantotto. Chissà quanti compagni di seminario ha visto trasformarsi in preti contestatori o, magari, solo in contestatori. E chissà quanto ci ha sofferto, lui che non ha mai smesso di portare la tonaca, di recitare il breviario e di obbedire al Papa.
Se le cose sono andate così, lo deve a Giovannino Guareschi, il suo padre letterario. L'antivigilia di Natale del 1946, lo scrittore si trovava nella tipografia milanese della Rizzoli dove stava trafficando per chiudere Candido, il settimanale di cui era direttore. Bisognava tappare un buco in fretta se si voleva che il giornale fosse in edicola il giorno 28. E il destino volle che Guareschi facesse ciò che solo la rapidità del giornalista e il genio del narratore riescono a concepire in una tale circostanza: prese un racconto che aveva scritto per Oggi, il settimanale della Rizzoli con cui collaborava, lo cavò dalla pagina già composta e lo fece ricomporre in un corpo più grosso per il Candido, che così fu pronto per andare in stampa. A Oggi ci avrebbe pensato nella mezz'ora successiva.
Il racconto si intitolava Don Camillo e cominciava così: «Don Camillo, l'arciprete di Ponteratto, era un gran brav'uomo...». Ora, con l'incipit leggermente modificato, apre la prima raccolta in volume di Mondo piccolo con il titolo «Peccato confessato». La storia è quella ormai celebre dell'assoluzione con annessa pedata nel sedere sparata da don Camillo a Peppone. Quando uscì il 28 dicembre, ebbe un tale successo che costrinse il suo autore a scriverne altri, fino arrivare alla bella cifra di 346: l'intera saga di Mondo piccolo, che, se Candido non fosse stato in affanno per la chiusura, probabilmente non avrebbe mai visto la luce.
Scampato quel pericolo, oggi don Camillo continua ad avere un esercito di lettori. E non si tratta solo di vecchi arnesi affezionati alla propria giovinezza: ammesso e non concesso che questa possa essere considerata una categoria di ammiratori di cui vergognarsi. Ma si tratta anche di giovani che, attraverso le storie raccontate da Guareschi, scoprono un'Italia di cui nessuno ha mai parlato loro a scuola e, magari, neanche in chiesa o all'oratorio. E non basta. Questi nuovi lettori scoprono la bellezza di un mondo in cui, pur tra le difficoltà della vita, le cose vanno per il verso giusto perché quel luogo è fatto apposta per accogliere la Grazia. Per la prima volta, si trovano a passeggiare per le contrade di un universo capace di mostrare agli uomini quanto siano belli e quanto grande sia il loro destino: basta solo che abbiano l'umiltà di aprire la loro anima al soffio eterno del Creatore. Quel soffio che corre lungo il Grande Fiume e pulisce l'aria per riempirla di invenzioni impastate di terra e di cielo come raramente capita di trovarne nella letteratura contemporanea.
Non è un caso se don Camillo, nei suoi sessant'anni di vita, dopo aver trovato milioni di lettori, incontra anche uomini che vorrebbero addirittura farsi suoi parrocchiani. Una decina d'anni fa, l'università di Padova commissionò un sondaggio sul sacerdote ideale e, naturalmente, stravinse il parroco guareschiano. Non ci fu uno straccio di prete progressista e contestatore capace di tenere il suo passo.
Questo, del resto, lo aveva previsto il suo stesso inventore nel 1966. In quell'anno Guareschi scrisse per Oggi una storia intitolata Don Camillo e la ragazza yé-yé, poi uscita incompleta in volume con il titolo Don Camillo e i giovani d'oggi e, quindi, opportunamente reintegrata a cura di Alberto e Carlotta Guareschi in Don Camillo e don Chichì. Il filo conduttore della vicenda è il serrato confronto tra il vecchio pretone e il giovane don Chichì, arrivato in paese con il suo spiderino rosso per spiegare a don Camillo che, come stabilito dal Concilio Vaticano II, i tempi sono cambiati ed è venuto il momento di aggiornarsi.
Sollecitato dai superiori, il vecchio prete lascia che il nuovo curato, leggendo i segni dei tempi, si dia da fare per ammodernare la parrocchia. Ma, a forza di demitizzare, di svecchiare, di cercare ciò che unisce e lasciare ciò che divide con l'illusione di conquistare i lontani, il poveretto finisce per rimanere da solo. I vecchi se ne vanno perché preferiscono farsi insultare da Peppone, che, almeno, è un comunista come si deve. I nuovi non si vedono perché diffidano delle imitazioni e, pure loro, preferiscono tenersi stretto Peppone.
Il motivo del fallimento, spiega Guareschi, è molto semplice. Don Chichì, nella smania di buttare via l'acqua sporca, ammesso che lo fosse, ha gettato anche il Bambino: quello nato a Betlemme due millenni fa. Un prete senza Gesù Cristo non va da nessuna parte e don Camillo lo spiega in un dialogo drammatico al suo curato. «Reverendo - urla don Chichì - questa è l'ora della verità e bisogna dire pane al pane e vino al vino!». E il vecchio parroco risponde: «Pericoloso dire pane al pane e vino al vino là dove il pane e il vino sono la carne e il sangue di Gesù».
Ma questo è un banale discorso da prete, da uomo che si è fatto sacerdote per vocazione. E don Chichì, purtroppo, ci tiene a far sapere che ha preso, si fa per dire, la tonaca per ben altri motivi: «Io - spiega - sono sacerdote non per ispirazione, ma per ragionata convinzione». Un fior di assistente sociale, insomma. Ma gente di sana e robusta costituzione spirituale come quella di Mondo piccolo non può prendere sul serio questo giovanotto che, avendo rinunciato a Cristo, può offrire al prossimo solo la propria disperazione e le proprie miserie.
Fa ben sperare, pur nel desolante panorama di oggi, che don Camillo abbia tanti lettori. È segno che, nonostante il triste attivismo dei troppi don Chichì, uomini di sana e robusta costituzione spirituale ve ne sono ancora. Tutta gente che si fida dei vecchi parroci e la pensa proprio come Guareschi quando dice: «I vecchi parroci, anche quelli col cuore tenero, hanno le ossa dure e per questo la Chiesa di Cristo che grava principalmente sulle loro spalle resiste a tutte le bufere. Deo gratias».
QUELL'UOMO LIBERO FINITO IN CARCERE PER LE SUE IDEE
Giovannino Guareschi (Fontanelle di Roccabianca, 1 maggio 1908 - Cervia, 22 luglio 1968) è stato giornalista e scrittore umorista. La sua creazione più famosa è Don Camillo, il parroco che parla col Cristo dell'altare maggiore e ha come antagonista il sindaco comunista del paese, Brescello, l'agguerrito Peppone. Corteggiato dalla politica, sia a destra che a sinistra, Guareschi è stato prima di tutto un uomo libero. Egli criticò e rese oggetto di satira i comunisti, che lui definiva trinariciuti (la terza narice serviva a far uscire il cervello e far entrare le direttive di partito), ma criticò, soprattutto dopo le elezioni del 1948, anche la Democrazia cristiana, che a suo parere non seguiva i principi cui si era ispirata. Nel 1954 Guareschi fu accusato di diffamazione per avere pubblicato sul Candido due lettere di De Gasperi (allora capo del governo) risalenti al 1944, nelle quali De Gasperi avrebbe chiesto agli Alleati di bombardare Roma. Fu condannato a 12 mesi di carcere in primo grado. Per coerenza si rifiutò di ricorrere in appello (fu incarcerato a Parma) e di chiedere la grazia.
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