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Genere: drammatico - Anno: 2005 - Giudizio: ottimo (**) - Età: Dai 14 anni in su

UNA RAGIONE PER LOTTARE
La storia vera del pugile irlandese Jim Braddock ci fa capire l'importanza dello sguardo del padre sui propri figli

Nel 1928 Jim Braddock è un pugile di successo, con una bella famiglia e qualche soldo da parte, ma la crisi del '29 e una serie di sconfitte lo riducono alla miseria. Jim, che si è fratturato una mano e ha perso la licenza di boxeur, tira avanti a stento come scaricatore di porto. Ma un'imprevedibile seconda possibilità lo rimette in pista e dà inizio alla favola della "Cenerentola del ring".
"In tutta la storia della boxe non troverete mai un'altra storia che, dal punto di vista umano, sia comparabile a quella di James J. Braddock". In queste parole di Damon Runyon, poste a esergo del film di Ron Howard, sta il senso di un film che è molto di più di una storia di boxe.
Cinderella man è uno di quei solidi classici che la Hollywood di una volta sembrava saper sfornare con una certa frequenza e di cui oggigiorno c'è davvero penuria, una celebrazione enfatica, forse, ma mai smaccatamente retorica, del sogno americano e di un uomo che lo ha reso veroper se stesso e per milioni di diseredati in uno dei periodi più difficili della storia americana, la Grande Depressione. […]
Il Jim Braddock di Russel Crow (forse l'unico, tra gli interpreti di oggi, capace di fondere con tanta naturalezza la violenza del ring e la tenerezza familiare del personaggio) è davvero un eroe a tutto tondo, per cui certo la boxe è una vocazione (ma lui più correttamente lo chiama mestiere), ma soprattutto il mezzo con cui sostenere la sua famiglia, che rimane chiaramente al centro del suo cuore.
Così, se si costringe a combattere con una mano rotta non è tanto per il bisogno di vincere a tutti i costi, ma perché ha negli occhi la miseria (mai gridata, ma non per questo meno drammatica) dei suoi, per cui anche una sconfitta onorevole può significare una cena, l'affitto o il riscaldamento.
La povertà della Meggie Fitzgerald di Eastwood era aggravata dalla solitudine e da un ambiente familiare freddo e ostinale, e dunque per lei la boxe diventava, oltre che via di riscatto e di affermazione di sé, anche la fonte di uno straordinario (e unico) rapporto personale per una perdente solitaria. Per Jim Braddock, la moglie Mae e i figli sono una presenza costante negli occhi e nel cuore (anche se lei non viene mai ad assistere ai suoi incontri e durante il match decisivo preferisce andare in chiesa a pregare) e la fonte più autentica del suo straordinario coraggio.
Un coraggio che si esprime in tutti i colpi dati e incassati sul ring, ma con una limpidezza ancora più cristallina quando, di fronte alla necessità di allontanare i suoi bambini per non farli morire di fame, Jim si umilia, prima andando a richiedere il sussidio statale, e poi mendicando letteralmente nella sede dell'Associazione pugilistica davanti a coloro che lo avevano rovinato togliendogli la licenza di boxeur.
Howard, in un film di ampio respiro, si prende il tempo di parlarci, oltre che di boxe (ma gli incontri che ritmano l'ascesa di Braddock al titolo mondiale sono filmati benissimo, coinvolgenti e a tratti impressionanti per la loro fisicità), anche del tessuto sociale profondamente ferito dell'epoca della Depressione; delle baracche costruite nel Central Park, dove vivono persone fino a poco tempo prima benestanti, degli uomini che lottano per un lavoro a giornata, di quelli che, come il manager di Jim, Joe Gould, tentano di mantenere l'apparenza del benessere perché quello è l'unico modo per farcela, mentre pochi gaudenti a Manhattan continuano a bere champagne e a ballare.
Se l'avventura di Jim Braddock è la realizzazione quasi perfetta del sogno americano dell'eroe che cade e poi risorge, il film non si fa sconti mostrando, attraverso la parabola opposta di un compagno di lavoro e amico di Jim, anche le tante vittime di quel sogno e di un sistema in cui, come è data la possibilità di realizzarsi con le proprie forze, altrettanto facile è perdersi ed essere dimenticati.
Tuttavia, ancor più che l'esaltante parabola sportiva che culmina in uno scontro di Davide e Golia, a lasciare incantati in questa pellicola è la semplicità con cui viene descritto l'ambiente familiare dei Braddock.
Il momento della crisi più profonda di Jim, quando vede impotente i suoi bambini consumarsi per il freddo e la fame, coincide anche con una crisi religiosa. I Braddock sono iralndesi e la presenza della Chiesa, nei panni di un prete così appassionato di boxe da organizzare una preghiera comunitaria in occasione dell'incontro più importante, con tanto di radio per la cronaca in diretta, è discreta ma reale. Il rifiuto di Jim di unirsi alla preghiera serale cui lo invita sua moglie Mae ci fa capire più di ogni altra cosa quanto poco manchi perché anche lui si arrenda a un destino spietato che non riesce più ad affrontare. Eppure anche in questi momenti Jim non perde lo sguardo pieno d'amore sui suoi, che si tratti di cedere la sua colazione alla bambina più piccola o di far restituire un salame rubato al macellaio. Pochi film come questo hanno saputo descrivere la bellezza di un rapporto educativo e di quanto può significare lo sguardo di un padre e di una madre sui propri figli.

Laura Cotta Ramosino
Fonte: Scegliere un film 2006

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