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Nell'anno 2000 una spedizione archeologica al Cerro Llullaillaco, sulle Ande, trovò la mummia perfettamente conservata di una bambina che gli scopritori chiamarono Cara de Angel, «viso d'angelo». Era stata sotterrata ancora viva a testa in giù ai piedi dell'altare sacrificale di uno degli innumerevoli e sanguinari dèi degli Incas. Non è altro che uno dei tantissimi ritrovamenti con cui gli archeologi via via confermano quel che i conquistadores spagnoli scrissero nei loro rapporti alla Corte iberica.
Il recente film di Mel Gibson, Apocalypto, non fa che narrare quel che nessuno ha mai descritto finora al cinema: le civiltà precolombiane si basavano sui sacrifici umani praticati in scala industriale. Basti pensare che, solo per consacrare il tempio dedicato al dio Huitzilopochtli, nel 1486, gli Aztechi nella loro capitale, Tenochtitlán, squartarono ben settantamila vittime in una cerimonia che durò giorni e giorni. Possiamo solo immaginare l'orrore e il raccapriccio provati dagli spagnoli quando si ritrovarono a camminare su un tappeto di decine di migliaia di teschi umani (non è un'esagerazione: ai piedi del tempio di cui abbiamo detto ne contarono esattamente centotrentaseimila; il film, accusato di eccessiva violenza, tiene, al contrario, la mano leggera rispetto alla storia).
Ciò spiega come potè un pugno di avventurieri (letterale: Cortés aveva con sé solo una settantina di cavalieri) aver ragione di imperi colossali e perfettamente organizzati che disponevano di milioni di guerrieri. Infatti, con i conquistadores si allearono immediatamente tutte quelle tribù il cui unico scopo, secondo i dominanti Maya, Incas e Aztechi, era quello di fornire carne fresca per gli interminabili sacrifici in cima alle piramidi a gradoni.
Gli Aztechi, per esempio, chiamavano xochi-yayotl, «guerre fiorite» quelle che scatenavano ogni primavera al solo scopo di procurare prigionieri da sacrificare. Tanto per far capire la situazione locale nell'America precolombiana, si ponga mente al fatto che lo stesso Cristoforo Colombo fu accolto con giubilo dagli arawak, eterne vittime dei cannibali caribi. Hernán Cortés, appena sbarcato a Vera Cruz, si vide subito offrire alleanza dai cempoaltechi, dai totonachi, dai tlazcaltechi, dai texcucani, dagli zapotechi e dai taraschi. Tutti popoli stufi di fare da carne da macello agli Aztechi.
Lo stesso accadde a Francisco Pizarro: contro gli Incas ebbe compagni i cañari, i chachapuya, gli huanca e soprattutto gli yana, che oltre a servire da vittime sacrificali erano pure schiavi della «razza superiore» inca. Più gli archeologi procedono con gli scavi e più si apprende sui sacrifici umani, i cui modi erano i più vari. Di solito, il sacerdote apriva il petto alla vittima e le estraeva il cuore ancora palpitante, di cui mangiava una parte. Il cadavere veniva subito scuoiato e il sacerdote ne indossava la pelle. Indi, il corpo veniva fatto rotolare giù dalle scale, in fondo alle quali si scatenava una festosa gazzarra per appropriarsene. Il «fortunato» possessore poteva mangiarselo ritualmente con gli amici. Il rifornimento di vittime era assicurato, come si è detto, dalle guerre all'uopo scatenate e dalle razzie periodiche (come si vede in Apocalypto).
Ma erano particolarmente apprezzati anche i bambini, la cui purezza e innocenza erano vieppiù gradite alla divinità. I modi di uccisione, come abbiamo detto, variavano: sono stati trovati resti di vittime arse vive, altre amputate fino alla morte, altre ancora stritolate sotto pesanti lastroni. Le analisi chimiche sugli stucchi dei templi aztechi hanno scoperto che nella composizione entravano ferro e albume impastati con sangue umano. Quest'ultimo, insieme alla carne, era anche parte di un intingolo molto apprezzato a base di mais, il tlacatlaolli.
Ma non si pensi che l'efferata barbarie di Maya, Incas e Aztechi riguardasse solo le suggestive cerimonie religiose, perché anche la vita quotidiana sotto di loro era un vero e proprio incubo totalitario (è antipatico citarsi, ma è lo scarso spazio a costringerci a rimandare i lettori agli appositi e corposi capitoli del nostro libro I mostri della Ragione-Ares). Di solito, gli intellettuali relativisti glissano sulla realtà dei sacrifici umani e rimangono estasiati davanti alle opere ciclopiche e ai perfetti calendari solari delle civiltà precolombiane.
Anche la loro arte li manda in visibilio. Si potrebbe osservare che pure i nazisti facevano opere ciclopiche, erano perfettamente organizzati e praticavano il genocidio sistematico ma nessuno si sognerebbe di lodarli. Per quanto riguarda l'arte, fu un calibro come Arnold Toynbee a notare che il tema preferito dagli artisti maya, incas e aztechi erano, ossessivamente, gli scuoiamenti, gli squartamenti, le teste mozzate.
Così scriveva Franco Cardini proprio su queste pagine nel 1987: «Spiace davvero di non poter mettere certi studiosi alla prova». E proseguiva dicendo sostanzialmente che, ci fossero stati «certi studiosi»" al posto delle vittime dei Maya, degli Incas e degli Aztechi, forse il loro giudizio sarebbe alquanto diverso. Ebbene, un sano esercizio per cercare di comprendere tutta questa storia è provare a mettersi nei panni degli spagnoli cinquecenteschi quando si trovarono di fronte agli spettacoli che abbiamo succintamente descritto.
È quel che ha fatto Mel Gibson con un film che, la si pensi come si vuole, è davvero grande cinema. Gibson, infatti, non è un «idiota» ma un cattolico professo, uno dei pochissimi del suo ambiente. Come il protagonista del suo The Passion, Jim Caviezel, il quale in un'intervista lamentò che essere cattolici nel giro hollywoodiano è come «andare in giro con un bersaglio sulla schiena con su scritto "sparatemi"». Questo è il vero motivo, temiamo, per cui Gibson si tira addosso, ogni volta, critiche e insulti (ma il botteghino è galantuomo). Noi italiani, invece, per «grande cinema» intendiamo i cosiddetti «film di Natale» o quelli di Nanni Moretti. Contenti noi...
LA MADONNA DI GUADALUPE
L'apparizione che diede una spinta decisiva per la diffusione del cristianesimo in AmericaE' una delle scene del film di Mel Gibson con cui inizia il lungo, agghiacciante cammino verso la piramide del sacrificio. Quando gli indigeni catturati dagli emissari della capitale, legati come bestiame da portare al macello, devono guadare un fiume. E una madre, trascinata via con le altre prede, si gira per l'ultima volta verso i sopravvissuti alla razzia, i bambini che si affacciano dall'orlo della foresta, implorando la dea Ixchel di proteggerli e di vegliare su di loro.
Altra scena. La moglie di "Zampa di Giaguaro", il protagonista, incinta e nascosta in fondo a un pozzo da cui non può più risalire da sola, getta uno sguardo che sa di implorazione a una luna piena. Luna che nella mitologia maya era associata ad Ixchel, la Madre numinosa, dea dell'amore e della fertilità, dea della conoscenza intuitiva e dell'arte della guarigione, protettrice degli abitanti del mondo di quaggiù.
Sguardi, implorazioni di soccorso - già rivolti ad un cielo muto da generazioni e generazioni di maya nel passato - che avrebbero trovato una risposta nel 1531. Quando una donna misteriosa apparve sul colle Tepeyac, nei pressi della futura Città del Messico, nel luogo in cui sorgeva un antico tempio dedicato alla dea Tonantzin, "sorella" settentrionale della Ixchel dei maya. Una donna che parlò in lingua nahuatl ad un campesino indio, battezzato col nome di Juan Diego: "Io sono la perfetta sempre Vergine Santa Maria, madre del verissimo Dio, colui per il quale si vive, colui che sta dando l'essere alle persone, il Signore che sta vicino a tutto e nel quale tutto è ricapitolato, il padrone del cielo e della terra... io ho l'onore di essere la vostra Madre compassionevole, tua e di tutte le genti che in questa terra siete una cosa sola... Perché sarò sempre disposta ad ascoltare il loro pianto, la loro tristezza, per curare tutte le loro diverse miserie, le loro pene, i loro dolori".
Il finale di quella apparizione, com'è noto, fu l'immagine che apparve sulla tilma, il saio di Juan Diego, quando costui riuscì a farsi ricevere dal vescovo per portargli una prova dell'apparizione di Maria: l'immagine di una donna dai tratti meticci, profezia della piena fusione di due popoli non più nemici.
Una donna cinta da un nastro nero, il segno portato dalle indigene gravide, con un "quincunce", il fiore a quattro petali simbolo di Quetzalcoatl, il dio atteso, disegnato all'altezza del ventre. Una donna con un manto azzurro e verde, colori divini per gli aztechi. Una donna rivestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi: come quella dell'Apocalisse.
Quell'immagine acheropita, cioè non dipinta da mani umane, il popolo indigeno la riconobbe subito: l'aveva pre-vista da secoli. Capì subito anche il messaggio di quella che sarebbe stata chiamata la Vergine di Guadalupe: un'autentica "teologia della liberazione".
Fu quell'apparizione che diede il vero via all'evangelizzazione dell'America Latina, fino ad allora piuttosto incerta. E trasformò lo sforzo di francescani e domenicani in un caso di inculturazione miracolosa (il "nuovo inizio" di cui parla Zampa di Giaguaro alla fine del film). Raccontano gli stessi missionari che i canti indios ad Ixchen e a Tonantzin, vietati dagli spagnoli, ripresero dopo il 1531 rivolti alla Vergine Maria. Gibson tutto questo non l'ha detto esplicitamente. Ma l'ha lasciato intendere. Anche fissando l'uscita del film nelle sale americane l'8 dicembre, festa dell'Immacolata.
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